«Papà, ci pensi, quest’anno sono ormai trentasei anni che viviamo in Italia! Hai vissuto più tempo qui, che nel tuo Paese di origine. Che cos’è che ti ha spinto a fuggire dal Vietnam? Perché hai deciso di mettere a repentaglio le nostre vite pur di andartene? Dove hai trovato il coraggio per fuggire? Io non avevo neanche due anni, tu e la mamma eravate poco più che ventenni…»
Mio padre serio risponde: «Tutti dovevano sottomettersi alle direttive del Partito. La dittatura del regime era totale, controllava la vita delle persone per cambiare e plasmare la loro mentalità. Il nuovo sistema, oltre ad abolire la proprietà privata, era volto a soffocare libertà, diritti e a perseguitare qualsiasi forma di religione.
Tutti quelli che non si potevano conquistare con la magia delle parole o con l’ardore rivoluzionario, venivano piegati con il terrore attraverso lo spionaggio, le minacce, il carcere e la tortura. La menzogna, la discriminazione, l’ipocrisia e la corruzione, erano diventati all’ordine del giorno, bastava la minima parola di dissenso per essere classificati come reazionari e spediti a tagliare alberi nella foresta o per subire un percorso di “rieducazione”.
I giovani o gli oppositori politici, erano costretti a prestare il loro servizio gratuito allo Z.E.N., le Nuove Zone Economiche, veri e propri campi di lavoro forzato per scavare canali, lavori di irrigazione, costruire strade. Per uscire dalla propria città o da un raggio di pochi chilometri, bisognava richiedere un permesso all’ufficio dei trasporti, e fare una coda di giorni e giorni. Chiunque avesse un’attività rischiava di vedersela confiscare senza nessun valido motivo dagli agenti governativi. Tutte le imprese venivano registrate e nazionalizzate. I benestanti venivano incarcerati con false accuse e i loro beni espropriati».
È un torrente in piena, è un argomento che a distanza di anni, continua a toccarlo profondamente.
Fa una breve pausa per riordinare le idee e scuro in volto prosegue: «Io, ad esempio, ero un piccolo produttore di reti da pesca, non sono mai stato iscritto a nessun partito, non ho mai collaborato con il regime del Sud, nemmeno con gli americani, eppure, nonostante questo, subii pesanti ingiustizie: mi imposero il pagamento di tasse esorbitanti, spropositate, basandosi su regole che inventavano ed adattavano di volta in volta, oppure capitò, in più occasioni, che quadri rivoluzionari ci perquisissero ogni centimetro di casa, alla ricerca di beni e merci che vennero poi scrupolosamente inventariati e sequestrati, lasciandomi completamente a terra, sul lastrico.
Come potevamo resistere a questi soprusi, come potevamo rimanere impassibili a questa violenza? Propagandavano l’uguaglianza sociale in materia di governo e di reddito, e in effetti si riempivano le tasche consolidando la dittatura di una piccola minoranza. Mettiamola così: forse la rivoluzione poteva essere affascinante, l’ideologia – indipendenza, libertà, unità – condivisibile, ma di fatto, nel momento in cui il Vietnam del Nord si ritrovò al posto di comando, al posto di chi aveva tanto condannato, combattuto ed infine rovesciato, si lasciò vincere da tutto ciò che il Sud aveva di peggio, senza essere capace di imporre la moralità, l’integrità ed il senso di giustizia di cui si sentiva investito».
Mio padre si interrompe per un breve istante. Il sapore dei ricordi gli lascia in bocca un gusto amaro.
Lo incalzo: «Raccontami della nostra fuga. Com’è andata?»
Papà si schiarisce la voce ed inizia il suo racconto: «La prima occasione si presentò nel novembre del 1979, ma si rivelò fallimentare. La polizia, temendo un massiccio esodo via mare, rafforzò i pattugliamenti delle coste, impedendo così a chiunque di scappare. Il 10 gennaio 1980 riuscimmo finalmente a fuggire. Dopo aver lasciato furtivamente la nostra casa, la nostra città e abbandonato tutto ciò che avevamo di più caro, ci ritrovammo in una parte deserta della costa meridionale, in quarantatré, tra adulti, anziani e bambini, pronti a salire su di una chiatta di tipo fluviale, rubata dall’organizzazione, lenta e non certo adatta ad una traversata di mare, lunga e pericolosa.
L’organizzazione illegale, che aveva progettato la fuga, ci ingannò assicurandoci che di lì a poco, avremmo incrociato una barca da pesca più grande e più veloce, e saremmo stati tutti trasbordati. La somma pagata da ognuno di noi fu di tre once d’oro. Nei dieci giorni di navigazione, venimmo assaliti e depredati, per ben due volte, da pirati thai. Erano individui dalla pelle scura, il capo completamente rasato, coperti da pochi stracci e armati di affilatissimi machete.
Tu e gli altri bambini a bordo, non la smettevate di piangere, eravate terrorizzati, e noi genitori ci sentivamo totalmente impotenti, incapaci di difendervi e proteggervi da una situazione che impauriva terribilmente anche noi. Un vero incubo. Nel primo assalto fecero piazza pulita di quei pochi averi personali; a te strapparono di dosso una catenina. Nel secondo, fecero razzia di ciò che ci rimaneva: i vestiti. Fummo molto fortunati perché ho saputo che altre imbarcazioni ebbero epiloghi ben più tragici. Donne violentate e rapite, probabilmente per rimpinguare i bordelli in giro per la Tailandia, bambini uccisi e i loro corpi fatti a pezzi e gettati in mare, uomini picchiati brutalmente e lasciati a se stessi a morire di fame e di stenti. Si verificarono anche episodi di cannibalismo».
«Davvero papà?», domando incredula.
«La disperazione e lo spirito di sopravvivenza fecero commettere azioni atroci, razionalmente impensabili. Quelli troppo deboli che morirono durante la traversata, invece di finire in mare, vennero mangiati dai propri compagni di viaggio».
Ho la pelle d’oca. Non riesco quasi a crederci.
Papà interrompe i miei pensieri cupi e continua la narrazione: «È per questo che prima ti ho detto che siamo stati fortunati, molto fortunati. Pensa, già dopo i primi tre giorni di navigazione, rimanemmo senz’acqua potabile e costretti a cuocere il riso e a dissetarci con l’acqua di mare. Il decimo giorno di traversata, ormai stremati dalla fame, dalla sete e dal mal di mare – siamo stati in balìa per giorni e giorni dei flutti del mare in tempesta – non saremmo sopravvissuti se una nave commerciale battente bandiera tailandese, sulla rotta Bangkok-Singapore, non ci avesse incrociati, e trascinato la nostra imbarcazione in prossimità della costa malese.
L’equipaggio aiutò voi bambini, donne e anziani a salire a bordo. Veniste dissetati e sfamati, mentre a noi uomini, rimasti sulla chiatta, furono date tutte le indicazioni necessarie per raggiungere il campo profughi di Pulau Bidong. Una volta giunti lì, la polizia malese, ci prese a raccolta, e ci condusse nella piccola isola di Bidong, poco distante dalla capitale Kuala Lampur.
Venimmo identificati e censiti, e i dati trasmessi alla U.N.H.C.R. (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, n.d.r.). Abbiamo trascorso cinque lunghissimi mesi nel campo profughi, in totale isolamento e con grandi sofferenze. I soccorsi e gli aiuti dall’estero, purtroppo, non erano sufficienti per le molte migliaia di profughi accampati (a Pulau Bidong, dal 1978 al 1991, transitarono almeno 250.000 boat people, n.d.r.). È stato un periodo durissimo, me lo ricordo come fosse ieri».
Lo interrompo e domando incuriosita: «Come siamo arrivati in Italia?»
«Inizialmente venne ad incontrarci una delegazione delle Nazioni Unite, poi fu la volta della Caritas Italiana. Ci misero al corrente che il governo italiano si rendeva disponibile ad accogliere un certo numero di famiglie. Chi fosse stato interessato, poteva iscriversi in una lista d’attesa. Anche gli Stati Uniti si offrirono a dare ospitalità, ma solo a determinate condizioni: avere famigliari in America, e quindi richiedere il ricongiungimento, ma non era il nostro caso. Altrimenti dovevi aver collaborato con il precedente governo o aver lavorato alle loro dipendenze durante il conflitto. Soffrivamo una situazione drammatica, le uniche cose che possedessimo erano gli indumenti che avevamo indosso, neanche più la speranza. Non potevamo indugiare e attendere che anche Australia e Canada aprissero le loro liste».
Lo guardo mentre pronuncia quei nomi, e intuisco che quelle fossero le mete da lui tanto desiderate.
«Scegliemmo la proposta italiana. Nel luglio 1980 abbandonammo finalmente la Malesia. Vennero programmati voli Kuala Lampur–Singapore, Singapore–Ciampino per un massimo di trenta passeggeri a volo. All’aeroporto militare di Ciampino vennero ad accoglierci una suora italiana ed un interprete. I nostri primi ventisei giorni in Italia, li trascorremmo in una struttura messa a disposizione da un ente religioso, non lontana da Roma. Ci informarono che molte parrocchie, associazioni e addirittura privati, si stavano offrendo ad ospitare una famiglia di profughi».
Qui si ferma per bere un sorso di tè che nel frattempo si è raffreddato.
Riprende fiato e abbozza un sorriso, è la prima volta che lo fa, e dice: «Abbiamo avuto la fortuna di arrivare qui, in provincia di Treviso, dove ci fu assegnata, gratuitamente per un anno, un’abitazione. Anche la parrocchia, attraverso molte donazioni, destinò una somma di denaro per far fronte alle nostre esigenze primarie, e ci fu una vera e propria gara di solidarietà tra la cittadinanza. C’era chi ci portava la spesa, chi si offriva di accompagnarci dal medico o al lavoro, quando poi lo trovai, qualche mese dopo.
Fu veramente commovente. Eravamo lontani migliaia e migliaia di chilometri dal Vietnam, in un Paese di cui non conoscevamo la lingua e di cui ignoravamo sia storia che tradizioni, ma ci sentivamo come a casa, accolti e ben voluti. Tre mesi dopo il nostro arrivo in Italia, il Ministero degli Interni, ci riconobbe lo status di rifugiati politici. In seguito, venimmo a sapere che alcuni anni dopo la nostra fuga, mi pare fosse il 1983, tuo zio, nel tentativo di lasciare il Vietnam con la famiglia, fu crudelmente ucciso dalla polizia che sorvegliava la costa, e venne lasciato morire sulla spiaggia…»
Non sorride più, ha gli occhi lucidi e la voce lievemente incrinata: «Tutta qui la nostra storia. Il resto lo conosci. Abbiamo fatto tanti sacrifici, ci siamo rimboccati le maniche partendo da zero e piano piano, giorno dopo giorno, abbiamo realizzato il nostro piccolo sogno americano qui in Italia».
«Papà, nessun rimpianto allora?», domando.
«No, nessun rimpianto e senza nostalgie. Voglio solo aggiungere che sarò sempre profondamente grato all’Italia e al popolo italiano di cui, oramai, ci sentiamo orgogliosamente parte».
«Un’ultima domanda, papà. Alla luce di quanto abbiamo vissuto, e consapevole dei rischi a cui siamo andati incontro, lo rifaresti?»
«Sì, Thuy, lo rifarei ancora, e mille volte ancora. Ricordati figlia mia che, il valore della libertà non ha prezzo, la libertà vale il prezzo della vita», conclude.